Febbraio – Maggio 2020
Non ho mai sofferto il freddo come l’anno scorso, quando, in aggiunta alla situazione termica poco felice dell’ambiente in cui lavoro, comunicante direttamente con l’esterno da quasi tutti i lati, si trovava a essere sfitto l’unico locale confinante con esso giusto dietro alle mie spalle, uno spazio enorme oggi per buona sorte bed and breakfast generosamente riscaldato, ma all’epoca niente altro che spietato accumulatore e distributore di gelo. Ciò a un punto tale che quando il freddo ha incominciato ad attenuarsi, verso la fine di Gennaio, non ho potuto dar seguito all’idea che avevo avuto di marcare il felice passaggio stagionale che si preparava con una mostra dallo spirito ancora invernale ma altresì venata di nascente speranza, perché stavo come Jack Nicholson alla fine di Shining, e mi mancavano del tutto le forze. Così riprendo quell’embrione di progetto ora, che il bed and breakfast alle mie spalle produce calore a sufficienza, e lo nomino nonché battezzo Collettiva di fine Inverno.
Il lento affievolirsi dell’Inverno è un momento topico e poetico, equivalente su larga scala alla sensazione individuale di benessere in graduale ma costante progressione che ha inizio nell’istante esatto in cui ci si infila sotto le coperte in un ambiente freddo. È la coesistenza nel medesimo spazio di un decrescente disagio e di una crescente confortevolezza ciò che dà all’animo un piacere anche superiore a quando tutto è oramai riscaldato per bene, e ci fa inoltre chiedere se Proust, che non abbiamo mai avuto il coraggio di leggere per intero, abbia talora considerato nel corso delle sue interminate divagazioni edoniche una simile fattispecie. Analogamente, le lievi variazioni che si affacciano nel colore del cielo, nella temperie meno ostile e nell’ambiente complessivamente inteso dopo la fine di Gennaio, nonché recare conforto inducono la nostra mai sopita natura animale a quella ciclica forma di piacevolezza che ogni volta corre un po’ innanzi rispetto all’incomodo del presente, in vista di vita più facile e di calda stagione.
Mi son chiesto, io che faccio il gallerista e col passare del tempo sempre più tendo a tradurre idee e pensieri in forma di mostre, se si potesse far vivere in un allestimento questo peculiare senso di transizione, questo meteorologico inizio di crescendo da Bolero di Ravel. Ho preso un Gilgogué pensoso, un Corneille dai colori puri ma seri, due Ionesco dal pianto al riso, dei Laugé in equilibrio tra venti oceanici e nevi primaverili, dei Maresca che mi ricordano di quando Wilde disse che la nebbia non esisteva a Londra prima che Whistler la dipingesse; e poi dei Casati dall’umore elegiaco, un De Biasi trasparente e vitreo, due Fiorese platino arancio e oro, due Pupovac come sprazzi di luce, e ho messo su questa Collettiva di fine Inverno. Può darsi che sia riuscito nel mio intento. Lascio che voi lo diciate.
Eugenio Bitetti